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Cannes: l’impegno politico e sociale accanto al divismo

Cannes: l’impegno politico e sociale accanto al divismo

K metro 0 – Cannes –  Le tracce, i messaggi che lascia il festival di Cannes, e quelli che insegue spesso appena preceduto dalle cronache, dalla più vicina attualità, degli eventi degli anni che viviamo. In primo piano balza agli occhi la donna, con la nuova visione della figura femminile che si impone, ora protagonista

K metro 0 – Cannes –  Le tracce, i messaggi che lascia il festival di Cannes, e quelli che insegue spesso appena preceduto dalle cronache, dalla più vicina attualità, degli eventi degli anni che viviamo.

In primo piano balza agli occhi la donna, con la nuova visione della figura femminile che si impone, ora protagonista e riscattata dopo le denunce degli abusi subiti da produttori e artisti senza scrupoli. La giuria presieduta da una donna, l’attrice Kate Blanchett una vera rarità, e, altra eccezione nella storia del festival, giuria con una maggioranza femminile, 5 donne su 9 componenti. È un segnale forte quello che arriva dalla Croisette e l’auspicio degli organizzatori è forse quello che non rimanga, appunto, una rarità mentre si aspetta che venga il giorno in cui la presenza di donne e di uomini in tutte le varie declinazioni che assume la “rappresentanza”, istituzionale, civile, sociale non sia più una “notizia” da titoli dei giornali e di compiacimenti.  Una parità, insomma, che non sia solo affidata ai numeri, e che dunque non sia più necessario contare gli uomini e le donne presenti nelle diverse forme di espressione della società. Un segnale in cui, tuttavia, se guardato con un freddo distacco critico privo di facile e magari mutevole entusiasmo, possono essere individuate tracce un po’ sospette di retorica, di scelte portate dal vento che spira. Ma intanto questo segnale c’è e può diventare punto di partenza, scelte che altri possono sentirsi chiamati a emulare. Certo, è stato necessario il caso Weinstein per far venire alla luce lo stato di soggezione che molte donne hanno vissuto nel mondo dello spettacolo e non solo.

E Cannes non si è fatta sfuggire l’occasione. E se il festival ne avesse fatto anche un calcolo di immagine, se ci fosse della retorica, il valore della scelta resta.  Anche se qualche retro-pensiero è legittimo. Perché forse qui sulla Croisette si è voluto strafare. Il festival, infatti, ha istituito un numero verde e lo ha fornito a tutti i giornalisti e festivalieri vari, per la denuncia di abusi da parte delle donne durante la manifestazione. Un’iniziativa che in molti, donne comprese, ha suscitato amare ironie. Troppa grazia, insomma. Poco male anche il numero esiguo di registe in concorso, 3 su 21 pellicole. Ma noi scegliamo i film che più ci colpiscono, e non gli autori donne o uomini, ha detto il direttore di Cannes, Thierry Fremaux. Un’affermazione che viene fatto di definire rivoluzionaria, perché, consapevolmente o meno, anticipa quel che dovrebbe essere e che forse un giorno sarà in tutti gli ambiti della società, la parità come fatto acquisito, senza quote e senza obblighi di legge in favore delle donne, o chissà un giorno, degli uomini.

Sulla Croisette anche le minacce palesi o striscianti che incombono sulla libertà di pensiero. Qui siamo nei territori del cinema, ma in ogni angolo del pianeta non c’è forma di espressione, dalla letteratura al giornalismo, che non sia in qualche modo sotto tiro. E così nel cartellone 2 film con registi fantasma, assenti forzati, detenuti nei rispettivi paesi. Il russo Kirill Serebrennikov con Leto (Estate), che è agli arresti domiciliari dall’agosto scorso. La magistratura del suo paese lo accusa di distrazione di fondi pubblici; Serebrennikov si sarebbe appropriato di risorse destinate al teatro Gogoli di cui è direttore. Ma il motivo viene ritenuto pretestuoso: il regista è infatti un dissidente e i suoi spettacoli molto critici neo-confronti del potere non sono graditi- Ora vive a sorvegliato speciale e non può lasciare il paese. A Cannes sulla scalinata più famosa del mondo che introduce nel palazzo del cinema, alcuni attori hanno mostrato un cartello col nome del regista, immagini ritrasmesse in tutto il mondo; e in sala è stata lasciata una poltrona vuota, riservata a Serebrennikov.  A nulla sono valsi gli appelli lanciati da Cannes in suo favore, compresa una lettera ufficiale della Francia alle autorità del suo paese. E Putin ha risposto con un orgoglio apparso anche un po’ sprezzante: in Russia la magistratura è indipendente.  In filigrana nel suo film ambientato ai tempi dell’Unione Sovietica quando i giovani cercavano un po’ di libertà attraverso il rock occidentale, non è difficile cogliere spunti autobiografici e di attualità. Stessa sorte per il regista iraniano Jafar Panahi in concorso con il film Tre volti. Il cineasta, autore di film di successo premiati in diversi festival come Il cerchio, Il palloncino bianco, Taxi Theran, quest’ultimo, girato in clandestinità, Orso d’oro a Berlino 3 anni fa, è agli arresti dal 2010, ed è stato condannato a 20 anni di carcere, accusato con suoi film di posizioni anti regime. Durante la “rivoluzione verde” Panahi si era schierato con chi si batteva per un cambiamento in senso democratico. Ecco, allora, che in questi casi come in altri, Cannes ha fatto il suo mestiere: territorio libero per definizione, come altri festival in Italia, in Germania e in altri paesi ha lanciato al mondo il suo messaggio per la libertà dell’arte e del pensiero.

Scorrendo il programma ecco le guerre striscianti, non dichiarate, spesso dimenticate, come quella del Dombass, portata sullo schermo con un titolo omonimo dal regista ucraino Sergei Loznitsa. In questa regione dell’Ucraina dal 2014 si combattono nazionalisti e ribelli filorussi: violenze indicibili, linciaggi senza pietà, paura, ricatti. E proprio nei giorni della possibile distensione tra le 2 Coree, e tra quella del Nord e il resto del mondo, il film sud-coreano Gongiak, di Yoo Jong-bin che rievoca la storia di un militare della Crea del Sud che negli anni ’90 accettò u incarico impossibile, infiltrarsi ai vertici del regime nordcoreano per tenere sotto controllo l’avanzamento verso la fabbricazione della bomba atomica. Anche in quell’epoca, doppi giochi, secondi fini, tradimenti, corruzione, si ebbero gesti di distensione, miseramente falliti.

La ricerca delle proprie radici e della famiglia perduta, tema che nel nostro tempo emerge con lo sradicamento a cui è costretto chi da continenti senza sviluppo cerca una vita più dignitosa, nel film egiziano Yomeddine, di A. B. Shawky, dove un poverissimo lebbroso guarito percorre mezzo Egitto in groppa a un asino alla ricerca della sua famiglia che lo aveva abbandonato da piccolo. E ancora, tra i tanti temi del festival, l’intolleranza e la sopraffazione verso scelte individuali che consideriamo “diverse” nel film del Kenia Amiche, della regista Wanuri Kahiu, dove due ragazze che sentono una castissima attrazione, subiscono un doloroso linciaggio sociale. Il film è proibito nel suo paese. E poi ancora, il razzismo che di tanto in tanto si riaffaccia in Europa come in altri continenti attraverso mille facce con il film sul Ku Klux Klan di Spike Lee. Solo alcuni spunti da Cannes 2018, l’impegno politico e sociale accanto al divismo, lo scintillìo di luci e la polvere di stelle. Se ci si può anche chiedere legittimamente a cosa “serve” un festival come Cannes, ecco, dunque qualche possibile risposta, senza dimenticare la sua funzione di alimentare l’industria del cinema. Come ha detto durante il festival un distributore internazionale: senza Cannes si perdono soldi, con il festival invece si recuperano gli investimenti e spesso si guadagna.

di Nino Battaglia

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