K metro 0 – intervista di Fabrizio Federici – Stefano Silvestri, romano, giornalista professionista esperto di geopolitica e problemi della difesa, è stato a lungo Presidente dell’ Istituto Affari Internazionali (IAI), il “Think-tank” privato creato nel 1965, su iniziativa del “Mosè dell’ Europa” Altiero Spinelli, per diffondere – sul modello degli analoghi istituti anglosassoni –
K metro 0 – intervista di Fabrizio Federici – Stefano Silvestri, romano, giornalista professionista esperto di geopolitica e problemi della difesa, è stato a lungo Presidente dell’ Istituto Affari Internazionali (IAI), il “Think-tank” privato creato nel 1965, su iniziativa del “Mosè dell’ Europa” Altiero Spinelli, per diffondere – sul modello degli analoghi istituti anglosassoni – la conoscenza dei problemi di politica estera, economia, sicurezza: contribuendo al progresso dell’ integrazione europea e all’ evoluzione del mondo verso forme di organizzazione sovranazionale. Con lui – tuttora consigliere scientifico dello IAI, e direttore editoriale della sua rivista “Affari Internazionali” – parliamo del possibile futuro dell’Unione Europea: nell’ era della globalizzazione, e in un mondo dove gli Stati nazionali perdono sempre più potere, a vantaggio, da un lato, delle organizzazioni sovranazionali, dall’ altro delle realtà locali, tendenti però a degenerare in nazionalismi esasperati e in “piccole patrie”.
Prof. Silvestri, a quasi 30 anni dal Trattato di Maastricht (1991) cosa vuol diventare veramente quest’Europa dei 28 (anzi, 27, vista la Brexit)?
La grossa difficoltà a proseguire sulla strada dell’integrazione europea, in direzione di un’Europa vero soggetto di politica internazionale, dipende non solo dalla Brexit, ma anche dalla resistenza di un certo numero di Paesi minori che non son disposti a ulteriori cessioni della propria sovranità (come, anzitutto, aderendo all’ euro). Al tempo stesso, però, la prospettiva di un’Unione Europea con una maggior integrazione economica e finanziaria è ineludibile (appunto per uscire dal “guado” in cui si trova adesso, in cui i cittadini, in Italia, Germania e altri Paesi, della moneta unica avvertono soprattutto gli effetti negativi, N.d.R.). È probabile, allora, che si torni alla vecchia realtà (che caratterizzò il dibattito fine anni ’70 – primi anni ’80) dell’”Europa a due velocità”: con un nucleo di Paesi più forte che andrà avanti. Questo, però, creerà altri problemi: perché sinora, quello che è il nucleo più veloce della UE è andato avanti grazie ai vecchi metodi di concertazione inter-governativa, mentre è evidente che, per far progredire davvero l’ integrazione, occorrono metodi nuovi, A questi, però, i Paesi minori che ricordavo non sono tanto favorevoli; penso che prima o poi, ci dovrà essere un forte chiarimento politico in sede comunitaria, a maggior ragione dinanzi alle recenti proposte del presidente francese Macron (condivise, in linea teorica, dalla Germania) di dotare finalmente la UE di veri poteri di politica estera e della sicurezza. D’ altra parte, che alternativa ha, oggi, l’Unione Europea? È pensabile tornare indietro, alla dimensione del vecchio Mercato Comune Europeo (pur con gli aggiornamenti degli anni ’80- ’90), ora che la UE, con tutti i suoi ritardi, sta assumendo impegni importanti in tema di relazioni internazionali, sicurezza, cooperazione internazionale.
Venendo alla crisi, sempre più evidente, dell’entità Stato nazionale oggi come vanno reimpostati i rapporti tra Stati nazionali, principio di nazionalità e principio di autodeterminazione dei popoli? Quest’ultimo è riconosciuto dal diritto internazionale, ma i popoli non diventano veri soggetti di diritto; al massimo, restano beneficiari dell’applicazione di quel principio nei rapporti fra gli Stati sovrani…?
Infatti, il diritto internazionale (questa, almeno, ne è l’interpretazione prevalente, che ho avuto modo di riscontrare) non fa dei popoli veri soggetti di diritti e doveri. Esiste un sostanziale diritto di un popolo a staccarsi dallo Stato in cui vive solo se quest’ultimo ha un regime totalitario (o anche praticante l’apartheid, come fu, in passato, per Sudafrica e Rhodesia, N.d.R.), o se il popolo in questione vive ancora in uno status di soggezione coloniale (caso tipico, il Tibet occupato, sin dal 1949- 50, dalla Cina comunista). Ma, questione essenziale, se lo Stato dominante non acconsente all’ uscita, all’acquisizione dell’indipendenza da parte di quel popolo e quel territorio, nulla può costringerlo a farlo (a parte, è chiaro, una guerra).
La comunità internazionale organizzata – anzitutto con l’ONU – può solo esercitare una pressione su quello Stato, con apposite risoluzioni (vedi quelle da decenni pronunciate contro l’occupazione israeliana della Cisgiordania) ed eventuali campagne sanzionatorie.
Questo principio di autodeterminazione dei popoli, quindi, non può automaticamente applicarsi a situazioni come quelle di Scozia, Catalogna, Corsica (e, a maggior ragione, Lombardia e Veneto, i cui abitanti non rappresentano un popolo distinto da quello del resto d’Italia) …?
Certo che no: in questi casi non può parlarsi di autodeterminazione, ma di semplici spinte a una secessione. Oggi, però, un po’ in tutti i Paesi dell’ Unione Europea, le minoranze etnico-linguistico-religiose son complessivamente protette, e le autonomie locali rispettate: quando gli abitanti di una regione, pur diversi etnicamente e culturalmente dal resto della popolazione di quello Stato, vogliono staccarsene, è evidente che in questo proposito c’è anche un elemento antidemocratico, perché, in definitiva, il tutto significa che la volontà di una minoranza di cittadini di quello Stato vuol prevalere su quella della maggioranza. I catalani, in pratica (tra i quali, peraltro, non tutti sono per il distacco da Madrid), o, un domani, gli scozzesi o i corsi, dovrebbero consultare, con referendum, tutta la popolazione dello Stato in cui vivono.
Ma quali sono, secondo Lei, i fattori alla base di questa “frenesia di secessione” che oggi sembra pervadere l’Europa?
C’è, direi, anzitutto una sorta di errata nostalgia, anche in questo campo, per il “piccolo è bello”. Legata, a sua volta, ad altri fattori: catalani e veneti, ad esempio, con un calcolo rozzo, sperano, staccandosi, anzitutto di pagare meno tasse, gli indipendentisti catalani, soprattutto, non han minimamente capito cosa significhi essere, specialmente oggi, uno Stato indipendente, quali problemi si debbano affrontare. Senza contare che sino ad ora, comunque, oltre a soffrire disagi per la forzata convivenza con gli spagnoli, per decenni però hanno anche usufruito dei consistenti vantaggi dello Stato unitario. C’è poi – spesso alimentata da vere e proprie “bufale” storiche, “Fake news” – la nostalgia per cose che, in realtà, non sono mai esistite: come, ad esempio, uno “Stato catalano”.
Questo si può trovare nelle scelte anche di interi Stati, come anzitutto il Regno Unito per la Brexit?
In parte sì: alla base della Brexit, c’è chiaramente una falsa nostalgia per una Gran Bretagna imperiale che, chiusa nella sua “Splendi isolation”, gestiva da fuori gli affari europei, e aveva interessi diretti più in Asia che in Europa (in realtà, il Regno Unito per secoli non ha partecipato alle contese territoriali europee, ma ha vissuto in continuo scambio economico, commerciale e culturale col resto d’ Europa, N.d.R.). E alle origini di tutto, poi, c’è, direi, una visione errata, mitica, della sovranità nazionale: come se questa, in un mondo ormai da due secoli avviato inevitabilmente alla globalizzazione, potesse proteggere un popolo dalla globalizzazione stessa e dai suoi effetti negativi ( come , anzitutto, la perdita o quantomeno l’ annacquamento della sua identità, il calo della sua potenza, ecc…).
In conclusione, Prof. Silvestri, quale strada è giusto che scelgano oggi gli Stati europei per affrontare tutti questi problemi nel modo meno traumatico possibile, mantenendo la costruzione dell’Unione Europea?
La strada migliore è quella di un’integrazione europea in cui le dimensioni puramente nazionali dei vari Stati, secondo un processo che direi storicamente inevitabile, perdano progressivamente forza: a vantaggio, direi, in ogni Stato, sostanzialmente di “Macroregioni”, in cui la politica abbia una dimensione più locale ed europea che nazionale. Ferme restando, è chiaro, le competenze irrinunciabili di ogni Stato nazionale (conduzione della politica estera, difesa, determinazione dei livelli essenziali, irrinunciabili, dell’assistenza sociale e sanitaria, ecc.…).
Questo, del resto, è il processo che, pur fra ritardi e ambiguità, si sta verificando oggi nei Paesi dell’Unione Europea: se la giustizia, ad esempio, è ancora in larga misura nazionale, si parla da tempo d’ istituire organismi come la Procura europea antiterrorismo (per la quale, però, servirà anzitutto una rete di giudici federali, che comunque dovranno fare spesso riferimento alle singole magistrature nazionali).
Sintetizzando, possiamo dire che in Europa, oggi, si tratta soprattutto di riprendere, riattualizzandola, la visione di Altiero Spinelli?
Per certi aspetti, sì: diciamo che la visione migliore dei problemi, oggi, è quella “glocalistica”.