K metro 0 – Un libro in chiave fortemente europea, che getta nuova luce su quegli anni (1955- ’58, soprattutto) che del dopoguerra segnarono, in Europa, una delle fasi piu’ significative ma anche piu’ difficili. Con la nascita, ad Ovest, dell’Europa comunitaria (del ’55 è la storica conferenza, a Messina, dei ministri degli Esteri dei
K metro 0 – Un libro in chiave fortemente europea, che getta nuova luce su quegli anni (1955- ’58, soprattutto) che del dopoguerra segnarono, in Europa, una delle fasi piu’ significative ma anche piu’ difficili. Con la nascita, ad Ovest, dell’Europa comunitaria (del ’55 è la storica conferenza, a Messina, dei ministri degli Esteri dei 6 Paesi promotori della CEE; del ’57 i Trattati di Roma, istitutivi appunto della Comunità). Ma, ad Est, l’esplodere delle rivolte popolari antistaliniste del ’56 in Polonia e in Ungheria, seguite dalla “normalizzazione” in Polonia e dalla feroce repressione sovietica a Budapest.
Parliamo del documentato saggio di Giuseppe Averardi “Ungheria 1956-Le verità rivelate” (Minerva ed., 2018, €. 18,00). Un libro che è anche il bilancio d’un secolo, quel Novecento passato alla storia come il secolo delle ideologie disumane e dei conseguenti genocidi. E, insieme, il bilancio esistenziale d’ un gruppo di amici, compagni, sodali, che l’ha attraversato: giornalisti, politici e intellettuali che aderirono in gioventù al comunismo, vedendo nell’Unione Sovietica «il centro della speranza mondiale, la società cui milioni di esclusi guardavano come un modello e una possibilità di salvezza». Salvo poi ritrarsene, disillusi e disgustati, dopo la durissima repressione sovietica della rivolta di Budapest (ottobre-novembre 1956): solo pochi mesi dopo quel XX Congresso del PCUS che , segnato dalla “destalinizzazione” di Kruscev, aveva acceso in tutto il mondo grandi speranze sulla possibilità d’ una democratizzazione del colosso sovietico.
Averardi (classe 1928), per più legislature deputato e senatore di area socialista, sottosegretario, membro del Consiglio d’Europa, giornalista, direttore della rivista “Ragionamenti”; Michele Pellicani(1915- 1991), giornalista e politico, già direttore della rivista del PCI “Vie Nuove” e poi del quotidiano del PSDI “La Giustizia”; Eugenio Reale (1905- 1986), antifascista, diplomatico nei primi Governi del dopo Liberazione; Tomaso Smith (1886-1966), commediografo, giornalista, fondatore, nel ’49, di “Paese Sera”. Questi i “quattro cavalieri” di cui parla il libro: che, partiti in gioventù da un’iniziale militanza comunista, dopo la tragedia dell’Ungheria escono dal PCI, parte anche loro di quel fiume di militanti ( centinaia di migliaia, riconoscerà poi, nel suo libro del ’76 “Gli anni della repubblica”, Giorgio Amendola) che, nel ” ’56 e dintorni”, esce dal “mare magnum” comunista. E approdano alla socialdemocrazia: raccogliendosi intorno al periodico “Corrispondenza socialista”, che Reale e Averardi (entrato fortunosamente in possesso dell’indirizzario di “Rinascita”!) fondano nella primavera del ’57.
Un settimanale (poi, dal 1960, mensile) che a lungo catalizzerà le energie di quanti, militanti del PSDI e d’ un PSI non ancora liberatosi dell’ipoteca frontista, socialisti indipendenti, democratici radicali e repubblicani, lavoreranno per creare anche in Italia un’ area autenticamente laburista, democratica, laica, terzaforzista, federalista europea. Nella seconda parte del libro, Averardi ci propone appunto un’ antologia di articoli di “Corrispondenza socialista” degli anni ’50- ’60: in cui autori europei e americani (da Robert Conquest a Francois Fejto, da Hovard Fast a Giorgio Galli e Antonio Ghirelli) raccontano la fine della loro innocenza davanti all’ emergere dell’ essenza repressiva del gigante sovietico. Intanto, si scrivono pagine tra le piu’ tragiche della storia: le lotte di potere al vertice dell’URSS sin dalla morte di Lenin, lo stalinismo, l’ assassinio di Trockij (agosto 1940), le tribolazioni del comunista eretico Milovan Gilas nella Jugoslavia titoista, il XX Congresso, le scelte dei “destalinizzatori staliniani”.
«Coloro che a ridosso della vicenda ungherese accettarono di passare per disertori, soffrendo ingiustamente per questo, meritano il tributo della memoria: disertori non furono; furono al contrario i soli, in un’epoca di dura contrapposizione ideologica, a rifiutare le censure e le autocensure della cultura marxista italiana.», scrive Luigi Fenizi, consigliere parlamentare, già collaboratore dell’“Avanti!” e di “Mondoperaio”, nella prefazione. Oggi, il tribunale della storia ha fatto definitivamente giustizia delle ideologie palingenetiche e sanguinarie del Novecento, e dei loro rovinosi cantori.