Nel Regno Unito, un comitato comprendente politici, protagonisti dell’economia e cittadini comuni propone un secondo referendum anti-Brexit K metro 0 – Londra – E’ stata lanciata, ad aprile a Londra, una campagna per un altro referendum sulla Brexit, che ha visto la partecipazione di esponenti di vari partiti, figure chiave dell’economia e dell’aristocrazia britannica e cittadini
Nel Regno Unito, un comitato comprendente politici, protagonisti dell’economia e cittadini comuni propone un secondo referendum anti-Brexit
K metro 0 – Londra – E’ stata lanciata, ad aprile a Londra, una campagna per un altro referendum sulla Brexit, che ha visto la partecipazione di esponenti di vari partiti, figure chiave dell’economia e dell’aristocrazia britannica e cittadini comuni. Alla manifestazione, stando agli organizzatori, sono intervenute circa 1.200 persone. Ma cosa si propone esattamente questo nuovo referendum? Intercettando un sentimento da sempre presente nell’opinione pubblica e nella classe politica britanniche (portate, sin dal Medioevo, a stare con un piede in Europa e con l’altro nell’ Oceano, per il controllo del commercio internazionale), la nuova votazione riguarderebbe il risultato finale dei negoziati attualmente in corso tra Governo inglese e Unione Europea: sul cui abbandono, diversamente da un anno e mezzo fa, i sudditi di sua Maestà non sono più così d’accordo. I negoziati tra Londra e Bruxelles dovrebbero terminare entro il 2018, con effettiva uscita del Regno dalla UE a marzo 2019: se il voto – sulla base d’un bilancio costi-benefici dell’uscita dall’ Unione – fosse negativo, dovrebbe sancire, secondo i promotori, un ripensamento automatico sulla Brexit, e quindi la permanenza della Gran Bretagna nella UE.
L’ iniziativa presenta obbiettive ambiguità, che l’ordinamento britannico, almeno sinora, non ha contribuito a chiarire (da noi sarebbe impensabile un referendum del genere, che la Costituzione esplicitamente esclude per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali). Ambiguità che rispecchiano, diremmo, la visione che della UE ha l’inglese medio; mentre non è la prima a carattere referendario che va in senso opposto alla storica votazione del giugno 2016. Già quella stessa estate, infatti, poche settimane dopo il referendum, l’Alta Corte di Giustizia d’ Inghilterra e Galles accolse il ricorso contro il Governo presentato da un gruppo di attivisti pro-UE (tra cui l’imprenditrice Gina Miller), che sosteneva l’indispensabilità di un voto del Parlamento (come nell’ordinamento italiano e di altri Stati di diritto) per avviare l’uscita del Paese da un organismo sovranazionale.
La linea del Governo May fu poi confermata dalla Corte Suprema britannica: ora, questa diversa iniziativa anti-Brexit è portata avanti da un gruppo di cui fanno parte Lord Andrew Adonis, ex uomo di governo laburista ed eurofilo convinto, la deputata verde Caroline Lucas e l’attore Patrick Stewart. A favore di un referendum bis, inoltre, negli ultimi mesi si sono espressi vari esponenti del Labour Party, dei liberaldemocratici e degli stessi Tories: il premier Teresa May ha però escluso l’ammissibilità di un’iniziativa del genere, cui resta contrario anche il leader dei laburisti, Jeremy Corbyn. In questo, Corbyn si pone sulle stesse orme di Michael Foot, il leader laburista estremista degli anni ’80 (ancora sostenitore, prima della svolta liberalsocialista di Tony Blair, della collettivizzazione dei mezzi di produzione!); e di tutte quelle forze di sinistra che, negli anni ’70- ’80, per ragioni soprattutto elettoralistiche, dati gli stretti rapporti con molti produttori agricoli (vedi, ad esempio, il leader del PCF George Marchais), erano fortemente contrarie all’ integrazione europea, alla pari dei nazionalisti più accesi. Mentre Blair, in uno storico discorso in Parlamento del novembre 2001, durante il suo secondo mandato come premier, accentuò oltremisura le sue propensioni europeiste: facendo – in un Paese da sempre contrario all’ “area euro” – addirittura un’appassionata difesa della moneta comune europea.